SHADOW BAN: L'INFORMAZIONE MAINSTREAM NON PUÒ FARE A MENO DI ESSERE RIDICOLA
Improvvisamente l'informazione mainstream scopre il problema degli shadow ban, ma per essere coerente con sé stessa non può che produrre articoli assurdi e ridicoli
L'informazione mainstream italiana ha scoperto il problema degli shadow ban.
Improvvisamente e tutti insieme Il Post, il Fatto Quotidiano, Facta, Fanpage e tanti altri hanno pubblicato articoli in cui illustrano l'esistenza di questa pratica e la sua problematicità, in relazione alla questione israeliano palestinese.
Scrive ad esempio il Fatto, in un articolo intitolato “I miei post sulla Palestina? Invisibili”: lo spettro dello ‘shadowban’ su Facebook, Instagram e TikTok. Le risposte dei colossi social”:
Una foto di Enrico Berlinguer con Yasser Harafat, datata 1982 e accompagnata da alcune righe sul pensiero del segretario del Pci morto nel 1984 sulla questione israelo-palestinese, tratte da una biografia scritta da Chiara Valentini. È l’ultimo post della pagina Facebook e Instagram collegata al sito enricoberlinguer.it, 500 mila e 17 mila follower ciascuna. Ma per qualche giorno non l’ha vista nessuno. “Siamo passati da migliaia di visualizzazioni l’ora a poche decine”, racconta Pierpaolo Farina, che gestisce questi account e quelli di WikiMafia, di cui è direttore. Vicenda denunciata anche sul suo sito. La pubblicazione di quel post risale al 9 ottobre, il secondo giorno dell’operazione militare di Israele sulla Striscia di Gaza, in risposta agli attacchi di Hamas del 7, che hanno fatto 1400 morti e la presa di 199 ostaggi.
L’esperienza di Farina è condivisa da centinaia di utenti dei social network: Instagram e Facebook e TikTok. In Italia come altrove. Sulla rete il fenomeno si chiama “shadowban”. Non è il “ban” (cioè la chiusura) di un account, né un “oscuramento” diretto di contenuti. Il post si trova ancora, se lo vai a cercare all’indirizzo della pagina, ma nei feed degli utenti non appare più. Una limitazione della visibilità di un contenuto, che per chi la riceve è solo una versione “soft” della censura, spesso preventiva.
Nonostante i media scoprano solo ora questa pratica e la sua problematicità, in realtà di shadow ban si è parlato moltissimo negli ultimi anni.
Si tratta di una questione venuta alla ribalta con i Twitter Files, le seguenti audizioni volute dai repubblicani alla Camera, le denunce di molti giornalisti indipendenti - come Matt Taibbi, Bari Weiss, Michael Shellenberger, David Zweig, Glenn Greenwald, Jonathan Cook, Caitlin Johnstone, Robert Kogon, C.J. Hopkins, Rav Arora, Alex Berenson, Lee Fang, Chris Hedges - la causa Missouri vs Biden, le denunce della censura della Great Barrington Declaration e dei suoi autori (vittime appunto anche loro di shadow banning) e quelle sulle origini del covid, la soppressione dello scandalo Hunter Biden alla vigilia delle elezioni (Twitter bloccò la possibilità di condividere l'inchiesta del New York Post e l'account del New York Post stesso, mentre Facebook ne ridusse la visibilità, con una sorta di shadow ban) e in generale nella discussione delle varie forme di controllo e censura dell'informazione e della discussione pubblica verificatesi in questi anni e delle varie leggi fatte per istituzionalizzarli, come il Digital Service Act, l'Online Safety Bill, le nuove norme canadesi, etc..
Ma in questi anni nulla di tutto ciò è stato decentemente raccontato dall'informazione mainstream italiana e dagli stessi ritardatari che oggi all'improvviso ne parlano.
Per questo nel parlarne oggi si trovano in una posizione particolare: o ammettono di aver “dimenticato” di raccontare quanto accaduto negli ultimi anni, tornando sui propri passi per informare i loro lettori di quello che finora hanno taciuto o liquidato con un'alzata di spalle, o per essere coerenti con la narrativa mantenuta fino ad oggi, sono obbligati a pubblicare articoli ridicoli e grotteschi che si ingegnano di parlare di shadow ban facendo finta di niente, evitando di citare i più importanti precedenti, casi, nomi e argomenti sulla questione.
Ovviamente la prima scelta richiederebbe umiltà, intelligenza e onestà, perciò non c'è da stupirsi che la strada scelta sia la seconda.
Avendo proposto un racconto falso fin qui, per mantenere una coerenza narrativa in ciò che raccontano ai lettori, devono continuare a proporre un racconto sempre più falso e irreale.
Dopo tutto come scrivevo in un altro articolo, quando si parla di informazione e disinformazione, libertà di parola e censura:
Quale che sia il motivo di una simile scelta editoriale, il racconto mediatico che ci viene proposto dai media mainstream manca di così tanti pezzi e di pezzi così importanti che è semplicemente privo del benché minimo senso e di qualsiasi aderenza alla realtà.
E tutto questo rappresenta un problema enorme. Anche perché:
La mancanza nella discussione pubblica e nella consapevolezza diffusa di determinate notizie e informazioni rende incomprensibili tutta una serie di altre notizie e vicende, le prime essendo il contesto necessario a comprendere le seconde.
Siccome il contesto che rende comprensibile l’attualità politica è in gran parte la conoscenza di quanto avvenuto in passato, le informazioni mancanti di oggi, sono altrettanti pezzi mancanti del contesto di cui avremmo bisogno per capire quanto accadrà domani.
Le persone cercano di comprendere ciò che accade con le informazioni che hanno, ma quando mancano di importanti pezzi del puzzle, spesso si danno spiegazioni che sono sì logiche e comprensibili rispetto alle informazioni a loro disposizione, ma anche parzialmente o del tutto sbagliate.
Infatti il framework dentro cui ci troviamo è questo:
Istituzioni, politici, media e giornalisti mainstream ci dicono che la disinformazione, le fake news, il complottismo, i troll, etc.. stanno attaccando e mettendo in periodo le nostre democrazie.
E che per questo la politica e le istituzioni devono intervenire, regolamentano la moderazione dei social e la lotta alla disinformazione, stabilendo degli stretti rapporti con le aziende private, indicando loro cosa debbano fare e prevedendo pesanti sanzioni nel caso non obbediscano con sufficiente solerzia.
Si tratta di una soluzione dirigista, che prevede un controllo politico e una censura della discussione pubblica.
È un approccio che è già in atto, in modo più informale in america per via del primo emendamento, in modo più formale e istituzionalizzato in Europa, e che si va sempre più rafforzando.
Una cosa contro cui si levano voci da anni, soprattutto in America - d'altronde le grandi aziende tech coinvolte sono quasi tutte americane - e soprattutto da giornalisti indipendenti (tra cui nomi importantissimi, pluripremiati e estremamente seguiti come Greenwald e Taibbi), ambienti libertari, difensori dei diritti civili.
Ma anche qualcosa che è stato fin qui appoggiato dall'informazione mainstream.
Tra ciò che informalmente (stile Twitter Files) o formalmente (stile Digital Service Act e Thierry Breton) si è chiesto e si chiede di fare c'è non solo censurare apertamente, ma anche togliere visibilità a determinati contenuti e profili, potenziandone contemporaneamente altri (le fonti istituzionali e i grandi media). Gli Shadow ban sono esattamente parte dei metodi usati a questo scopo.
Ora che i media e i giornalisti mainstream, o almeno alcuni di essi, si scontrano con questa pratica su una questione che li vede in disaccordo scoprono anche che dipingerla come una pratica meravigliosa, che migliora le nostre democrazie, innalza la nostra discussione pubblica, rende la rete un posto migliore e più sicuro e ci salva dai troll russi o cinesi, era una puttanata propagandistica più falsa delle famiglie della pubblicità del mulino bianco.
Ma ancora non possono fare un discorso coerente, sensato, decente, realistico e onesto, né sugli shadow ban né sull'intera faccenda della lotta alla disinformazione.
Quindi ecco che danno vita ad articoli assurdi, incapaci di dire le cose come stanno e di difendere la libertà di espressione e l'indipendenza dell'informazione e della discussione pubblica. Articoli così parziali e privi del contesto rilevante, da risultare fuorvianti nella comprensione di quello di cui parlano.
Ecco perché ad esempio il Post riesce a fare un articolo in cui parla di shadow ban affermando:
Negli anni, molti utenti e ricostruzioni giornalistiche hanno verificato che può succedere che alcune Storie che riguardano determinati contenuti e temi, per esempio il sex work, ottengano sistematicamente meno visualizzazioni delle altre. In questi casi, il motivo è di solito uno “shadow ban”.
[…]
Solitamente a essere particolarmente esposte a shadow ban sono le persone che pubblicano post che contengono corpi femminili, nudità (non completa) e discussioni sulla sessualità, inclusi negozi che vendono sex toys online e profili che fanno educazione sessuoaffettiva. Il problema si era però già presentato sempre nel contesto del conflitto israelo-palestinese nell’aprile del 2022, in un momento in cui erano aumentate le violenze. In quel caso vari personaggi piuttosto noti, tra cui la modella palestinese-olandese Bella Hadid e lo youtuber palestinese Adnan Barq, avevano fatto notare che ogni volta che pubblicavano un contenuto in cui parlavano di Palestina le loro visualizzazioni diminuivano notevolmente.”
Che è una ricostruzione grottesca. Perché in realtà, come ho detto, di shadow ban si è parlato moltissimo in questi anni, fuori dall'Italia o anche in Italia, ma non sull'informazione mainstream, ma principalmente non certo per qualcosa che avesse a che fare con il sex work, i sex Toys e l'educazione sessuo affettiva.
Se ne è parlato soprattutto per tutto quello che ha avuto a che fare con il modo in cui la politica, i social e i motori di ricerca, sono intervenuti a moderare o a censurare le discussioni sulle elezioni Usa 2020, la gestione della pandemia, le origini del covid, i vaccini, i green pass, i lockdown, la Great Barrington Declaration, gli affari dei Biden in Ucraina e il caso Hunter Biden, i Twitter Files, i Facebook Files, la guerra in Ucraina, il cambiamento climatico, la lotta alla disinformazione, le malefatte dell'FBI, gli eventi del 6 gennaio, le questioni relative ai transgender e varie altre discussioni politicamente cariche.
Questi sono i precedenti da citare, quando si vuole discutere di questa pratica, specialmente a proposito di una questione anch'essa politicamente carica, almeno quanto le altre che ho citato, come è quella israelo palestinese.
Ed ecco un buon motivo per cui l'informazione indipendente e alternativa è vitale. E va protetta dai Digital Service Act, dagli Online Safety Bill, dai Thierry Breton e dai Justin Trudeau, dagli Anthony Fauci e dai Francis Collins di questo mondo.
Perché quali che siano i suoi limiti e difetti, ha dimostrato di dare le notizie che i media mainstream non davano ed è stata cristallina nella sua opposizione ad ogni forma di controllo politico e censura dell'informazione e della discussione pubblica.
Di tutto quello che ho citato nel corso di questo articolo, come qualcosa che il mainstream ha ignorato, l'informazione indipendente ne ha invece parlato (io collaboro col Miglioverde e posso testimoniare che il Miglioverde per esempio ne ha parlato a iosa), fornendo così per esempio le premesse per trattare di shadow ban in modo sensato, così come di tanti altri argomenti.
E se è stata anche veicolo di disinformazione, notizie false e teorie complottiste, come certamente è vero, non ha disinformato né più, né meglio di quanto abbia fatto e faccia normalmente il “rispettabile” mainstream, che solo per il fatto che abbia omesso di raccontare la maggior parte delle vicende che ho citato va considerato un gradino sotto il tanto vituperato Byoblu, che almeno intanto le notizie le ha date.